La versione di Emmanuel Babled.
Non trovo le parole per iniziare questo articolo. Qualunque frase, riguardo Emmanuel Babled, finisce sempre per non essere del tutto vera. Dire che l’architettura, in senso lato, è il suo modo di essere nel mondo, forse è la cosa più vera che mi viene da scrivere.
(Molti lo definiscono un visual artist, lui, nella nostra conversazione su Skipe, parlava di se’ come un designer; e a un certo punto, quando siamo stati interrotti dalla telefonata di un cantiere, ho pensato ‘sto parlando con un architetto vero’!).
Mi ha raccontato che lo scorso anno per via della pandemia si è trovato bloccato per molto tempo su un’isola della Tanzania,
(Emmanuel Babled ha usato la parola ‘esiliato’),
così ha pensato: ‘cosa faccio?’ ‘Il mio lavoro’.
Ed ha cominciato a collaborare con gruppo di artigiani locali che costruivano sedie sul bordo di una strada. Non perché fossero in qualche modo meno bravi, ma perché la’ funziona così. Un altro modo di costruire, di lavorare. Non c’è l’elettricità, non ci sono macchinari. Ci sono i chiodi il martello e l’ingegno umano. I legni usati, sono veri e propri rami di alberi che riescono a piegare perché crescono accanto ad un lago e sono ‘ammorbiditi’ dall’umidità’.
(Mi ha detto: questa sedia è un pezzo di natura. Rappresenta un saper fare atavico. Il legno è antitermite)
In Tanzania questa sedia si trova dovunque ed’ è un po’ l’equivalente della nostra, di plastica.
Ma a chiedersi perché Emmanuel Babled abbia deciso di disegnarne la sua versione si spalanca un mondo.
Quando ha dato l’intervista mi sono preparata le mie domande:
– Come sceglie i materiali?
– Perché il legno?
– Perché le sedute da esterno? (Emmanuel Babled fa cose davvero incredibili, compresa una lampada di marmo a campana che si può appendere e con lo spessore di un foglio carta. In tutto questo, quest’anno quando mi è arrivato il comunicato per la design week avevo notato un cambiamento)
– Perché ha deciso di produrre in Africa? (La domanda più sbagliata di tutte).
Risultato:.
(…e dalla prima parola di Emmanuel)
In un immagine: la torre dei tarocchi!
Perché lui sceglie ‘gli artigiani non il materiale. Certo parto da un’idea, ma si disegna sul concreto’.
‘ Possono accadere incontri magici, fortuiti. Non mi interessava disegnare l’ennesima sedia carina. Volevo fare un oggetto con una storia. Ho utilizzato la seduta originale cambiando finitura e modello per chiedere una collaborazione a questo collettivo. L’ho trovata un occasione per raccontare una storia. Una sedia completamente naturale; un saper fare umile, non c’è ricchezza. Mi ha ricordato la casa sull’albero dei bambini. Si tratta di soluzioni più semplici rispetto al design, all’industria.’
‘ Ho deciso di esporre queste sedie d, accanto agli oggetti fatti in collaborazione con Andrea Zilio -grande maestro vetraio veneziano- a Palazzo Litta per la Design Week. L’obiettivo è stato permettere alle persone di equiparare -e non giudicare- realtà artigianali differenti ma comunque valide. Rispettare altri saper fare e portare progresso e valore. L’obiettivo è quello di far avere commisssioni al collettivo “Jisamwe Collective, help yourself”, un progetto aperto a chiunque voglia fare la sedia. La seduta costerà 200 euro e le percentuali di guadagno sono suddivise per il 50% agli artigiani ed il 30% per pagare un po’ di management locale. Credo che noi designer abbiamo una responsabilità, è l’etica del design. Già il colonialismo di danni ne ha fatti.
‘Adesso sto lavorando con un’altro collettivo che fa tessuti batik’
Il mondo è quello che vogliamo che sia. Elisabetta Guida
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